mercoledì 3 novembre 2010

Piuttosto che parlare banalmente come voi mi taglio la lingua




Chi ne sa più degli altri insegna che la lingua evolve con l'uso. Ammetto che questa tesi sia in linea di principio condivisibile.
D'altra parte però, essa pone questioni che il mio animo reazionario e asburgico trova dure da accettare. Alle elementari ci hanno insegnato la grammatica e la sintassi, la filosofia (più che la verità) ci ha insegnato che sulle parole qualcuno ha costruito una fama imperitura e Umberto Eco potrebbe mettere la sua barba a disposizione per una lezione introduttiva alla semiotica lunga sei settimane. Accetterei che la lingua evolvesse sulla base delle necessità. Per intendersi, se non c'è più bisogno che qualcuno venda civaie al mercato, allora l'uso di "civaiolo" andrà scemando fino a rimanere in qualche dizionario ben fatto con un'indicazione che lo identifichi come desueto. Bene.
Il discorso cambia se per qualche oscura ragione, termini che hanno avuto un significato per generazioni, tutt'a un tratto dismettono i loro panni per snaturarsi in qualcosa di diverso e, in alcuni casi, più esteso.

Non mi meraviglio che il popolo bue abbia un lessico povero. Sbigottisco che gli stupri linguistici attecchiscano anche nel mondo del business e proliferino nelle cosiddette classi dirigenti.

In questi contesti la lingua evolve secondo mode che nascono dagli abissi di ignoranza di coloro che sono caduti nella trappola della scuola postsessantottina, plasmati dalla tv, fashion victim e in molti casi provenienti da parti d'Italia dove l'italiano è una lingua straniera.

La lingua è storpiata, avvilita, calpestata, manomessa, vilipesa. Le parole sono svuotate di senso, alcuni fortunati vocaboli hanno un significato che si estende da capo Horn al mare di Hudson.

Milano, contaminata dal fiume di disperati che vi si riversa in cerca di fortuna, è la vetrina ideale per osservare le nuove tendenze linguistiche.

(0 - continua)

Nessun commento:

Posta un commento